di Luca Mazzucato

Dopo settimane di trattative, giovedì scorso Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo per il cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza. L’esercito israeliano ha sospeso i raid nella Striscia e Hamas si é impegnato a fermare il lancio di razzi artigianali su Sderot; tutte le fazioni palestinesi hanno accettato la tregua, limitata a Gaza e non estesa alla West Bank. L’ala armata di Fatah rischia di rompere la tregua lanciando due Qassam e Hamas dichiara per la prima volta che “il lancio dei Qassam danneggia l’interesse nazionale palestinese.” Il negoziato tra Olmert e Hamas rappresenta il definitivo fallimento della linea dura della “dottrina Bush” in Medioriente, che predica l’isolamento dei movimenti “radicali” di resistenza quali Hizbullah in Libano e i sunniti in Iraq. Ad un anno dalla presa del potere di Hamas a Gaza e il conseguente blocco totale della Striscia da parte di Israele, il milione e mezzo di palestinesi ormai prostrati dall’embargo e dall’Occupazione possono finalmente sperare di riprendere fiato. Dall’inizio di quest’anno, le ostilità nella zona costiera hanno causato la morte di quattrocento palestinesi e sette israeliani. L’accordo prevede la graduale riapertura dei check point per permettere l’approvvigionamento di cibo, carburante e beni di consumo nella Striscia. Da mesi le strade di Gaza City sono invase dall’odore di falafel: a causa della penuria di gasolio, le poche macchine corrono infatti grazie all’olio da cucina; il sistema fognario della città, privo di carburante, riversa direttamente in mare le acque nere creando un colossale rischio sanitario e ambientale.

L’accordo di giovedì scorso prevede l’avvio di trattative per la riapertura del valico di Rafah tra Gaza e Egitto, sotto la supervisione egiziana, che metterebbe fine alla drammatica condizione degli abitanti palestinesi della Striscia, ostaggi nella più grande prigione a cielo aperto del pianeta. Israele al momento non sta onorando la sua parte dell’accordo e tuttora tiene chiusi tutti i valichi d’ingresso alla Striscia, mettendo a rischio il fragile negoziato. Se la tregua reggerà, si riaccenderanno le speranze in uno scambio di prigionieri tra Hamas e Israele per la liberazione del caporale dell’IDF Gilad Shalit, catturato due anni fa da Hamas: tuttavia molte voci in Israele si stanno schierando contro la trattativa, ritenendo la liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi (per lo più donne e bambini, ma anche alcuni militanti condannati per azioni violente) un prezzo troppo alto da pagare in cambio del soldato israeliano.

Purtroppo la West Bank non e’ inclusa nella tregua. Le truppe israeliane continuano i raid quotidiani con arresti e assassini di militanti palestinesi. Martedì, in un’operazione undercover a Nablus, l’IDF ha giustiziato due attivisti palestinesi, causando la rappresaglia delle Brigate Al Aqsa - l’ala militare del partito del presidente dell’ANP Abu Mazen - che hanno lanciato due razzi Qassam su Sderot, violando il fragile cessate-il-fuoco. Questa azione della Jihad ha provocato la durissima reazione della dirigenza di Hamas, che per la prima volta ha denunciato il lancio dei razzi su Sderot come “un atto che danneggia l’interesse nazionale palestinese, perpetrato dalle pedine dell’Occupazione israeliana,” riferendosi alle Brigate Al Aqsa affiliate a Fatah. Il governo de facto di Hamas “prenderà tutte le misure necessarie per imporre il rispetto della tregua,” e ha chiesto ai mediatori egiziani di fare pressioni su Israele perché onori la sua parte dell’accordo, riaprendo il valico di Rafah.

Il continuo riferimento da parte di Hamas all’ “interesse nazionale palestinese” e la fermezza con cui sta cercando di riportare all’ordine i vari gruppi armati nella Striscia può rappresentare una svolta nella strategia del movimento di resistenza. Dopo un anno di blocco totale di Gaza, Hamas sta cercando di rompere l’isolamento internazionale e rivendicare la propria affidabilità come legittimo rappresentante della causa palestinese, a differenza dei “collaborazionisti” di Fatah. Nel caso di tenuta del cessate-il-fuoco, la popolarità di Hamas aumenterebbe in vista delle probabili elezioni presidenziali dell’ANP del prossimo anno.

Dall’altra parte del Muro, la strategia israeliana di contrasto della resistenza si é dunque volatilizzata. Nel gennaio 2006, in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinesi, Olmert (su pressione americana) aveva deciso di boicottare il governo palestinese di Hamas, portando lo scorso anno all’isolamento totale della Striscia di Gaza dopo che Hamas ne aveva ottenuto il controllo manu militari. Le intenzioni dell’establishment israeliano erano di punire gli abitanti della Striscia per indurli a rivoltarsi contro il movimento islamico. La stessa strategia aveva portato nell’estate del 2006 alla guerra in Libano, con lo scopo dichiarato di punire i libanesi per il loro supporto a Hizbullah e spingerli, tramite i massicci bombardamenti, a rivoltarsi contro il gruppo di resistenza sciita, responsabile del rapimento di due soldati dell’IDF. Entrambi gli scenari si sono rivelati fallimentari per la leadership israeliana, ottenendo risultati opposti a quelli sperati.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito prima all’apertura del governo israeliano alla Siria e poi ad Hamas, con l’effettivo inizio delle trattative e, infine, all’estemporanea offerta di Olmert al Libano di trattare sulla zona contesa delle She’eba Farms, rifiutata seccamente dal premier libanese Siniora. In tutti i casi, Olmert si e’ completamente smarcato dalla “dottrina Bush” di isolamento del cosiddetto “asse del male.” Ci sono tuttavia alcuni segnali che rendono dubbia l’efficacia di queste aperture. Prima di tutto, il governo Olmert si trova al capolinea, a causa delle importanti accuse di corruzione mosse al premier da più parti, che lo costringeranno in pochi mesi alle dimissioni e probabilmente a nuove elezioni.

Come nel caso della conferenza di Annapolis, Olmert sta giocando la carta dei negoziati per “congelare” la sua presenza al governo, ma questa volta la sua sorte é ormai segnata. Oltre al fatto, ovvio per tutti gli attori, che per fermare il lancio di razzi Qassam l’unica via percorribile é quella politica, dal momento che una rioccupazione militare di Gaza porterebbe ad un altissimo numero di vittime tra le file israeliane in periodo elettorale. Inoltre, anche nel caso di progressi nei vari negoziati, questi dovranno essere approvati dalla Knesset, dove la maggioranza dei deputati é contraria a qualsiasi compromesso con i “nemici” dello stato ebraico. Come se non bastasse, nel caso di elezioni anticipate, il sicuro vincitore sarebbe un redivivo Bibi Netanyahu, uomo forte del Likud e intransigente oppositore di tutti i negoziati.

Anche se sul fronte israeliano la situazione é del tutto volatile, i progressi tra Hamas e Israele potrebbero portare a risultati del tutto inaspettati sul fronte palestinese: il conflitto tra Hamas e Fatah potrebbe infatti essere prossimo al termine. Nonostante il braccio armato di Fatah abbia cercato di sabotare il cessate-il-fuoco per creare problemi ad Hamas, sul fronte politico la situazione sta cambiando. Dopo i sanguinosi episodi di guerra civile a Gaza, in cui le truppe di Fatah finanziate da USA e Israele sono state sbaragliate da quelle del movimento islamico, per la prima volta Abu Mazen ha aperto una porta ad Hamas e chiamato alla ripresa del dialogo tra le due fazioni palestinesi, congelato dopo i recenti incontri in Yemen, conclusisi senza alcun risultato. Anche in questo caso quindi, la “dottrina Bush”, che prevedeva il boicottaggio di Hamas e il supporto per il “moderato” Fatah, é naufragata miseramente.

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